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“L’isolamento è il mio coronavirus”

Valentina Brioccia

Sentire mancare il terreno sotto ai piedi, il respiro venire meno, il cuore battere all’impazzata, gli incubi la notte, i pensieri negativi che fanno da sveglia la mattina sono i sintomi peggiori di un virus chiamato paura e alienazione.

Il caos e la frenesia generalmente rendono irrequieti, disturbano il nostro sistema nervoso tanto da spingerci alla ricerca della pace più assoluta nei posti più ambigui e desolati, quelli che nessuno conosce e dove mai penserebbe di andare.

Il casino dei clacson, le grida dei ragazzini sotto casa, le persone che ti vengono addosso in mezzo alla folla, le file nei negozi, erano e sono la cura necessaria contro un silenzio assordante sempre più violento e forzato, non ricercato, ma obbligato. Un silenzio che parla e grida un nome: coronavirus.

Ha invaso le nostre vite, ha bloccato i nostri ritmi, le vie si sono svuotate, ma gli ospedali si sono riempiti, fino a non contenere più tutti quegli infetti. Le tv sono impazzite, i tasti del telecomando consumati facendo zapping da un canale all’altro alla ricerca dell’ultima notizia, rincorrendo una speranza e un appiglio.

Le giornate scorrono senza che qualcosa di concreto sia fatto, si gironzola per casa, si pulisce perché la mente possa pensare ad altro, ci si riunisce in un abbraccio tra coinquilini pensando a quei genitori lontani che mostrano tutte le loro fragilità e preoccupazioni in quelle telefonate ormai fredde e malinconiche.

E poi, si torna lì, su quel divano blu, di fronte a una finestra che dà su Via Mazzini, ma non è la stessa di sempre, anche il cielo con il sole è diventato cupo. Perfino il telefono si è accorto dell’ossessione, arriva una notifica che segnala che il tempo trascorso incollata allo schermo è aumentato del 28%, ma se prima le ricerche erano svariate e molteplici, adesso nella cronologia l’unica pagina è quella di Sky Tg24.

Tutti ti implorano di fare rientro in Sardegna, «qui sei al sicuro» dicono, e incalzano, le amiche strette, «abbiamo paura che non ti facciano tornare, chiuderanno gli aeroporti». Se prima il bivio aveva due strade, adesso queste sono raddoppiate se non triplicate.

Respiri profondamente e ti affidi a quella parte della coscienza che ancora resiste e sopravvive, ti autoconvinci che l’università riaprirà e la tua routine potrà continuare da dove l’avevi lasciata. Ma, non è così, le lezioni, gli esami, gli articoli da scrivere non esistono, la creatività è partita per un viaggio lontano, la mente è arida. Non puoi prendere una decisione, se parti sei un incosciente perché potresti essere infetto e trasportare il virus, se rimani devi farti forza, come e in che modo non si sa.

Intorno, le amiche e colleghe, si pongono le stesse domande, i dubbi sono gli stessi, donne forti, ma anche fragili; addirittura, da Treviso, si è disposte a pagare 300€ di biglietto aereo pur di fare rientro a casa il primo giorno utile. Follia? Forse. Paura e panico? Certamente.

Nel mentre il numero dei contagi aumentano, anche in Emilia – Romagna i casi positivi ai test crescono giorno dopo giorno, è tra le regioni più colpite.

Quello che inizialmente si definiva timore sfocia in pazzia.

Nei supermercati scoppia una terza Guerra Mondiale, in coda fuori dai locali muniti di mascherine e poi, pronti, partenza, via… gli scaffali vengono svuotati, nei banchi frigo non rimane più niente, inizia a formarsi il ghiaccio, le code alle casse sono di trenta minuti se non di più, ma non importa, si è disposti a tutto pur di riempire quei carrelli.

“Non stare in posti affollati e a contatto ravvicinato con altri soggetti”, è questa una delle regole guida istituite dal Ministero della Salute per prevenire e contenere i contagi. Purtroppo, i fatti parlano e adesso non si combatterà più solo contro il coronavirus, ma anche la beata ignoranza delle persone.

È ancora una volta l’ironia sul web che funge da antidepressivo, le vignette sono tante, i meme altrettanti, gli unici formati di pasta rimasti su quegli scaffali sono le farfalle e le penne lisce, dicono che il coronavirus abbia fatto capire una cosa, ovvero quanto agli italiani non piacciano determinati tipi di pasta.

Il sarcasmo arriva fin dalla Sardegna, si offrono addirittura di spedirti pacchi colmi di cibo, la percezione che hanno di questa situazione è completamente diversa da quella che si respira al nord e centro Italia, non si capisce fino in fondo come ci si possa sentire.

Hai bisogno di aria, vivi sola e per forza di cose devi uscire a comprare ciò che ti occorre. Con tutte le buone intenzioni e speranze indossi un’armatura e percorri via D’Azeglio, quella che ti ha sempre condotta verso l’università. Le persone che camminano per strada le puoi contare sulle dita di una mano, i volti incavati, gli sguardi persi, non sanno perché hanno messo il naso fuori dalla porta, cercano i tuoi occhi per trovare risposte, ma non sei d’aiuto.

Scoraggiamento e senso di desolazione pervadono il corpo e l’anima, ancora una volta è stato inutile.

“Villa Mazzini”, così la chiamano le mie amiche, inizia a svuotarsi, dopo mille tentennamenti il sud ti richiama e l’eco è sempre più forte.

Se inizialmente la paura era quella di contrarre il virus, ora temo che siamo giunti ad una battuta d’arresto per le nostre vite.

I media manipolano e le persone non sanno informarsi adeguatamente, ogni notizia è presa per buona, i dati dell’OMS sono aria fritta, sono più le persone che guariscono, ma questo non si sa o non si vuole sapere.

È la fine di quei bivi, vivere un’altra settimana in mezzo al nulla è impossibile. Ryanair mi offre un biglietto per Cagliari il 1° marzo a 40€, afferro l’occasione e compilo i campi necessari in modo quasi meccanico. Sto meglio. Mi sento sollevata, vedrò il mio mare cristallino, che è sempre stato la cura contro ogni malessere, salirò nelle cime delle montagne che fanno da sfondo a casa mia e ricomincerò a respirare a pieni polmoni.

L’aereo tocca terra, il vento di maestrale è fortissimo, pioviggina, ma dentro di me c’è il sole. Prima di uscire dall’aeroporto, da lontano, intravedo dei colori sgargianti, sono i medici che devono controllare la temperatura corporea, «inutile» penso, «potrei essere asintomatica» mi ripeto.

Passo, non c’è niente di preoccupante che possa e debba bloccarmi.

Vedo sorrisi, spensieratezza, tutto quello che a Parma mi stava mancando.

Non riesco a pensare e pormi il problema che il virus possa arrivare fin qui, sbagliavo. “Primo caso di coronavirus in Sardegna” leggo nelle testate giornalistiche locali. Mi agita pensare a come il popolo sardo possa accogliere una notizia simile, non so se saremo satirici o esagerati, i due estremi che da sempre ci appartengono.

Su Facebook vedo un’immagine, è la foto ad un foglio bianco appeso fuori da un bar: “in questo locale: no amuchina, no mascherina, solo cannonau e mirto. Qui si muore da eroi”.

Sorrido, un po’ mi sento in colpa, ma al contempo sono appagata dal fatto che non si sia creato un allarmismo inutile in una situazione che non è ancora degenerata.

Il 12 risalirò su quell’aereo che mi riporterà a Parma, la città che a settembre 2019 ha sancito l’inizio della mia rinascita.

Non so come sarà, se la situazione sarà migliore, nel frattempo faccio ricarica di abbracci riparatori, riempio la valigia di goliardia e tenacia e ricomincio.

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