
Flavia Geraldi
Giacomo Leopardi l’aveva sempre saputo. E da questa frase prendo spunto per raccontarvi la mia esperienza: la discriminazione ai tempi del CoronaVirus.
Sono le ore 12:36 del 23 febbraio quando ricevo la prima e-mail che comunica la sospensione delle lezioni fino al 28 febbraio. In casa mia scatta il panico: io e le mie coinquiline ci guardiamo, riflettiamo, non sappiamo bene cosa fare e come comportarci. Passa qualche ora, loro decidono di far ritorno nei propri paesi, prima che la situazione si aggravi. Io continuo a ponderare la mia scelta, aspetto ancora qualche giorno ma nel frattempo viene prorogata la chiusura dell’Università.
Resto sola in casa.
Sono giorni difficili e pieni di incertezze, vorrei tanto tornare al sud ma so bene che devo prendere tutte le precauzioni del caso. E qui inizia l’Odissea. Ho provato a contattare per circa due ore e mezza il numero della regione Emilia-Romagna, poi il 1500 e a seguire il Punto Bianco; dopo quasi cinque ore di attesa, finalmente riesco a parlare con chi di competenza ricevendo il “via libera”. Solo in questa fase, dopo essermi attrezzata di mascherine e gel disinfettanti di vario genere, acquisto il mio biglietto aereo, con partenza prevista il 3 marzo.
Arrivata in Sicilia e più precisamente nella mia amata Agrigento, vengo discriminata in ogni modo, accusata di essere un’incosciente, un’irresponsabile che “porta il virus dal nord”. Mi è stato detto di tornare da dove son venuta, mi sono state rivolte queste parole: «È facile vivere fuori quando i mezzi funzionano, quando tutto è più bello e gli aperitivi sono fantastici, ma abitare fuori vuol dire anche rimanerci quando succede una situazione del genere e un ragazzo, per non mettere a rischio la famiglia, gli amici, la comunità intera, resta fermo dove si trova, a casa!». Sento un brivido di freddo lungo la schiena, consapevole di non aver sbagliato e di essermi attenuta a tutte le norme di sicurezza sia prima di partire che dopo essere arrivata: ho contattato il numero verde della regione Sicilia, il medico di famiglia, la Protezione Civile e ho compilato la scheda del censimento per chi arriva da zone a rischio. Ma evidentemente tutto ciò non è bastato perché sulla mia home di Facebook iniziano a spuntare post come questo.

Partendo dal presupposto che dubito che la folla di ragazzi, avvistata ieri in una piazza della mia città, sia scesa in blocco dal nord, mi chiedo: che senso ha continuare a prendersela con chi è tornato a casa rispettando tutte le norme di sicurezza? Quando poi i primi egoisti sono coloro che risiedono ad Agrigento?
Il problema della mia isola è a monte: è più facile puntare il dito contro qualcun altro, è più semplice attaccare “lo straniero”, colui che ha deciso di tornare a casa dopo essersi ritrovato completamente da solo, in una città non sua, nel bel mezzo di un’emergenza nazionale.
E l’agrigentino medio in che luogo decide di sentenziare sugli altri? Ovviamente in un posto pubblico, non rispettando nessuna delle normative emanate dal Ministero.
Non riuscirete a farmi sentire in colpa.
Piuttosto, siciliani e non, immedesimatevi nelle situazioni, cercate di capire prima di parlare, qualcuno più fragile di me potrebbe sentirsi ferito dalle vostre parole dettate dall’ignoranza. Posso raccontare la mia esperienza, non tanto diversa da quella della maggior parte dei fuorisede che si sono trovati in enormi difficoltà.
L’Italia intera pecca di enorme superficialità e spero che il buon senso si diffonda più velocemente del virus.
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