
Eleonora Puggioni
7 marzo 2020, ore 20.30: “Domani mattina dovrebbe partire un volo da Parma per Cagliari: costasse anche un milione, torna a casa!”.
Sono settimane che i miei genitori, preoccupati, mi chiedono di tornare. A dire il vero mia madre, divorata dall’ansia, mi chiama tatticamente da quando sono scoppiati i primi casi in Cina: “Guarda che arriva anche qui, ma cosa ci fai lì da sola, qua saresti in compagnia, ci siamo noi”. E io, con fare arrogantello, le ho sempre risposto che era troppo esagerata, che il virus non sarebbe arrivato qui in Italia con tanta facilità, che in fondo non si può mettere in pausa la vita per una minaccia percepita a milioni di anni luce da te. Ma come sempre accade e per chissà quale magia, la mamma ha sempre ragione. Non c’è niente da fare. Ed eccoci qua, a distanza di solo poche settimane, il Covid-19 non solo è arrivato in Italia, ma Parma stessa rientra tra le province del Nord Italia dichiarate “Zona arancione”.
Che significa esattamente “zona arancione”? Secondo il decreto ufficiale saranno chiuse scuole e università, centri di cultura (musei, cinema, teatri etc.), verranno annullati tutti gli eventi culturali e sportivi; i bar garantiranno il servizio dalle sei alle 18; i centri commerciali resteranno chiusi i fine settimana e non ci si potrà spostare. Non si potrà entrare o uscire dalla città se non in casi di emergenza sanitaria o comprovate esigenze lavorative. E tutto questo fino al 3 aprile, almeno.
Ecco qua. Panico! In quel momento, la voce di mia madre risuonava nelle orecchie: “Te l’avevo detto io!”
Neanche a dirlo, la mattina del 7 marzo, ancora ignara di tutto ciò che sarebbe successo da lì a poche ore, all’ennesima richiesta, una piccola parte di me aveva pensato di dare retta ai miei genitori, e partire.
Ma poi il dubbio: e se avessi incubato qualcosa? E se portassi con me la malattia?. Il dubbio che corrode e che ti fa ragionare. È questo il tanto ricercato – soprattutto in questi giorni – senso civico? Perché diciamolo, pensare di affrontare una tale emergenza in una città che ti ha adottato, ma che non è la tua, non è semplice. Ma è anche vero che se esistono tali misure, io in primis, non sono nessuno per violarle e pensare al mio tornaconto personale. “Scappa prima che sia ufficiale!” Sì, ma io devo proteggere i miei cari. Perché di questo si tratta. Io sono nata in Sardegna, la mia famiglia è lì, in un piccolo paese di settemila anime in provincia di Cagliari, e sebbene nessun posto sia al sicuro in questo momento, mi piace pensare che nel mio piccolo posso fare qualcosa per evitare di peggiorare la situazione. Un piccolo sacrificio per tenere le persone che amo al sicuro. E lo so, posso solo immaginare la preoccupazione di avere una figlia lontana in una zona che agli occhi del mondo è diventata pericolosa. “Te l’avevamo detto! Dovevi tornare prima! Ora è troppo tardi”. Sì, ora è tardi. Ma sento il peso della responsabilità: io devo proteggere voi.
E all’inizio di questa vicenda, che fosse per incoscienza, per la curiosità di sapere cosa sarebbe successo o il senso di responsabilità verso ciò che ho qui a Parma, io ho scelto consapevolmente di rimanere. E anche quando la sera del 7 marzo la pubblicazione della bozza del decreto che annunciava l’imminente chiusura ha causato il panico – sappiamo che è successo alla Stazione Centrale di Milano – io consapevolmente ho deciso di rimanere a Parma.
Che sia chiaro, non mi sento di rimproverare (e chi sono io per farlo?) tutti quei ragazzi, studenti, lavoratori fuori sede che si sono lanciati nel primo – e ultimo – treno disponibile per tornare a casa. A volte il panico prende il sopravvento; avranno proiettato la loro immagine in camerette fatiscenti, fredde, solitarie. Si saranno sentiti soli, in trappola, senza vie d’uscite se non per quell’ultimo treno intercity delle 23.20.
Ora tutte quelle persone dovranno prendersi la responsabilità di tenere al sicuro i loro cari, mettendosi in quarantena almeno per 14 giorni, in forma preventiva. Perché il potenziale collasso del sistema sanitario potrebbe riversarsi su tutti noi con la forza di uno tsunami.
E allora sta a noi, ad ognuno di noi, intervenire per contenere questo nemico invisibile che, come un tarlo nella nostra mente, si sta insinuando nella quotidianità, intaccando inesorabilmente le nostre abitudini e certezze.
La nostra vita, per come la conoscevamo, momentaneamente deve subire un arresto. Io lavoro in una piccola biblioteca sociale nel quartiere San Leonardo, abbiamo annullato tanti eventi, abbiamo messo in stand by progetti, iniziative; la realtà di ognuno di noi, nessuno escluso, al momento non può proseguire il suo normale cammino.
Ma qualcosa si può fare: stiamo insieme (ad un metro di distanza, si intende), parliamoci, condividiamo, amiamo. Non lasciamoci soli, impariamo a rispettare le regole per amore nostro e dell’altro. Capiamo davvero il senso del rispetto e della condivisione! Perché quando tutto questo finirà, saremo ammaccati ma ancora una volta pronti a ripartire.
O così si spera.
IL CORONAVIRUS E NOI. FRA SUD E NORD… : leggi il diario
Rispondi