
Angela Nardelli
Trento. Terzo giorno di quarantena.
É sera e sono sul balcone. Tutto tace. Il mio paese, a pochi chilometri dalla città, è immerso in un silenzio assordante. Si sentono solo il cinguettio degli uccellini e qualche rara macchina in lontananza. Le luci delle case sono tutte accese e penso alle famiglie riunite davanti alla TV, o al tavolo da pranzo immersi in chiacchiere o in giochi da tavolo. Li immagino parlare di quello che sta accadendo, incollati al televisore in attesa di nuove notizie, in cerca di parole di conforto dal governo e dalle Istituzioni.
Immagino che tutti abbiano in testa un solo pensiero: un virus che si sta diffondendo a macchia d’olio su tutto il territorio, che sta cambiando le vite quotidiane di tutti. Sì, perché questo male silenzioso ha toccato ognuno di noi, ha cambiato la routine di ogni persona.
Rientro in casa e mi stendo sul letto. Ora penso alla mia famiglia.
Penso a mia sorella che vive nel paese vicino, con una bimba di sei mesi, e che oggi ci ha chiamati via Skype per salutarci e per farci vedere le risate della piccola. Sono vicini ma allo stesso tempo lontani. I decreti dicono che non possiamo vederci perché di due comuni differenti, dicono di non uscire di casa e di muoversi solo per casi di estrema necessità. Appena appresa la notizia volevo sprofondare. D’istinto ho pensato “No, non è possibile, ci sarà un modo per riuscire a vedersi”. Poi la parte razionale ha prevalso, dicendomi che è giusto così, che bisogna soffrire oggi per star meglio domani.
Penso ora ai miei nonni, distanti 10 km dal mio paese. Penso soprattutto al nonno, che ieri è stato ricoverato d’urgenza in ospedale per uno scompenso cardiaco. Lo immagino spaventato prima dell’operazione, solo nella stanza, senza nessuno accanto. Due settimane fa sarei potuta andarlo a trovare. Avrei potuto stringergli la mano e sussurrargli “Andrà tutto bene, noi siamo qui fuori ad aspettarti”. Oggi invece non è stato possibile. Lui era solo e noi in pensiero per lui a pochi chilometri di distanza. Nonno, sono lì con te.
Poi penso al mio ragazzo e alla voglia che già ho di rivederlo. Sono passati pochi giorni e già mi manca. Il pensiero di averlo così vicino e allo stesso tempo così lontano è frustrante. Ci siamo salutati con un semplice abbraccio e tornassi indietro lo stringerei ancora più forte.
Sono ancora sul letto, e mi sento strana. Da un po’ di giorni a questa parte oscillo costantemente tra due poli opposti: lo sconforto e la speranza. Sconforto perché penso a cosa voglia dire cambiare il proprio stile di vita, non poter vedere le persone di cui mi circondo nella mia quotidianità, non poter studiare nella mia amata biblioteca, non poter prendere un semplice caffè con i miei amici, non poter passeggiare per il centro storico di Trento ammirando la meraviglia dei palazzi, non poter più continuare la stagione sciistica sul Monte Bondone, la mia amata montagna sopra casa. Tante cose mi sono state tolte, come tante altre a tutti noi.
E qui scende in campo la speranza. Speranza nelle Istituzioni e nel governo, che stanno facendo tanto per prevenire il più possibile, per proteggerci, per rassicurarci e per infondere coraggio. Speranza nei medici, che sono i nostri angeli custodi in questo momento e che si sono elevati a veri e propri paladini instancabili e pronti a tutto. Speranza nel buon senso delle persone, che hanno il dovere di seguire le direttive e di cercare in tutti i modi di limitare ogni possibile contagio. Speranza nel futuro, nel miglioramento della situazione che non potrà durare per sempre.
Questi due poli opposti sono dei chiodi fissi nella mia testa, mi attanagliano durante la mia giornata, che cerco di passare facendo ciò che prima non avevo il tempo di fare, o che tenevo da parte per pigrizia o procrastinazione. Cerco di tenermi impegnata tra studio, lettura, passeggiate nel bosco vicino a casa, famiglia. Ma è impossibile non pensare a quello che ci sta capitando, non pensare a cosa sta provando la gente intorno a me, a cosa stanno sentendo i miei cari, i miei amici, il mio ragazzo.
Sta succedendo davvero? È tutto reale? Com’è stato possibile?
Io che mi ero da poco trasferita a Parma per iniziare una nuova avventura, che avevo iniziato a stringere amicizia con i miei compagni di corso; io arrivata a metà anno accademico in una città nuova, mai incontrata prima, che stavo già iniziando ad amare. Eccomi qui, di nuovo a Trento, a nemmeno due mesi dall’inizio di tutto. La nostalgia della città, dell’Università, dei compagni appena conosciuti e delle passeggiate al Parco Ducale si fa sentire.
Questo virus, ormai pandemia, ha portato alle persone molta solitudine, sofferenza e sconforto, ma una parte di me, quella speranzosa, mi dice che tutto passerà e che saremo più forti di prima.
In queste circostanze l’uomo per natura è portato a reagire, a rialzarsi, a comprendere che ha le forze per sopportare e per uscire dal dolore. Siamo forti perché siamo uniti anche nella distanza.
Ecco che la libertà assume ora un nuovo aspetto, si colora di nuove sfumature. Da ora in poi la scorgeremo nelle piccole cose, in un abbraccio in pubblico, in un bacio, in una stretta di mano, in un aperitivo in compagnia.
Quando tutto sarà finito, sono sicura che daremo più valore alla vita, alla leggerezza di una chiacchierata, alla visita ai nostri cari, all’importanza dei medici, allo studio, alle Istituzioni. Tutto diventerà più bello, più vivo, più nostro.
Per arrivare a ciò ognuno di noi deve fare dei sacrifici, deve pensare a chi sta lottando per noi, deve dare il proprio piccolo contributo alla nazione e al mondo intero.
Dalla finestra della mia camera guardo fuori, sono le 23:02 e la luce della finestra che prima ho visto accesa si è spenta. Sta finendo un altro giorno e domani la battaglia giornaliera di ognuno ricomincerà.
Penso di nuovo a mia nipote, a mio nonno, al mio ragazzo. Li rivedrò fra alcune settimane, ma li penso in ogni momento.
Allora mi ripeto questa frase che mi porto appresso da giorni e che mi fa spuntare un sorriso: “Tutto andrà bene Angela, tutto andrà bene Italia, tutto andrà bene Mondo”.
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