
Francesca Rizzo
“Corre l’anno 2030
L’Italia ha venduto il Colosseo alla Francia, Venezia affonda,
2030 e un giorno sì e un giorno no scoppia una bomba
2030 e stiamo senza aria
Ma odio ce ne abbiamo in abbondanza
Prima divisero Nord e Sud, poi città e città
E pensa, adesso ognuno è chiuso nella propria stanza
L’intolleranza danza, non c’è speranza”
Corre l’anno 2020, ma a me continuano a risuonare in mente i versi di una canzone del 1996. In poco tempo, tutti noi abbiamo preso confidenza con una parola, “Coronavirus”, che da sconosciuta si è trasformata in un incubo collettivo, qualcosa che ci unisce e insieme ci separa.
Quello che sembrava un nemico lontano è diventato parte della nostra quotidianità, costringendoci a rintanarci a casa, ad avere paura di amici e familiari, possibili vettori del contagio, e figuriamoci poi degli sconosciuti. Camminando per strada ci si scansa, mentre si fa la spesa si guarda in cagnesco chi ignora le distanze e si avvicina troppo.
Nonostante il pessimismo non sia mancato negli ultimi giorni, è solo ieri sera, mentre ascoltavo il discorso del Presidente Conte, che mi è piombata addosso una verità ineluttabile: è questa la nostra guerra. Un pensiero azzardato? No, non parlo di una guerra in campo aperto, con eserciti che si affrontano, bombe che esplodono e fucili che sparano. La nostra guerra è fatta di una reclusione forzata, che significa negozi chiusi. Bar chiusi. Ristoranti, strutture ricettive. Tutto chiuso, tutti trincerati dietro le nostre mascherine. Noi giovani, noi fortunati, che non abbiamo vissuto gli anni più bui della Storia, ci ritroviamo a pensare ad un mondo di cui finora abbiamo solo letto nei libri di fantascienza, o visto in qualche film più o meno credibile. E non è superficialità, non è la rinuncia ad uno stupido aperitivo, che pesa. La nostra guerra, ad oggi, consiste nel mettere in stand-by il nostro lavoro, il nostro futuro, i nostri progetti; nel pensare a come reagirà al lockdown un’economia già precaria. E nel realizzare che soffermarsi sull’economia è una forma quasi inconscia di autodifesa, per non pensare a cosa sta succedendo negli ospedali in questo esatto istante. Ai pazienti che “muoiono soli”, come ho letto in uno dei tanti articoli scorsi dal cellulare. A chi è lì fuori, a combattere in prima linea, mentre noi siamo qui a sperare.
Mentre l’opprimente silenzio del mondo esterno viene rotto solo da un annuncio: “Si comunica che venerdì 13 marzo 2020, a partire dalle ore 3 del mattino, si provvederà ad effettuare l’intervento di lavaggio e disinfezione stradale sul territorio di Cavallino e Castromediano. Si raccomanda di non essere presenti sulle strade al momento dell’intervento dell’automezzo”.
E ignorando la mia coscienza, che ritrova un po’ del vecchio brio e si chiede “ma se non posso uscire di giorno, cosa ci potrei mai fare alle 3 di notte in giro?”, vado indietro col pensiero: a quanti secoli sembrano passati dalla festa per il 90° compleanno della nonna, quando in realtà sono solo pochi giorni. All’ultima pizza mangiata con gli amici, a tutte le occasioni sprecate per pigrizia, per noia.
Mi chiedo se tutto tornerà come prima, o se la paura ci resterà addosso, spingendoci a limitare i contatti al minimo. Se tornerò ad abbracciare chi è intorno a me, o se avrò sempre paura di trasmettergli qualcosa di più pericoloso dell’affetto.
“Ci riabbracceremo presto, e saranno lacrime a fiumi, ma solo di gioia”, scrivevo ieri alla mia migliore amica. E voglio crederci, con tutta la forza del sole che, nonostante tutto, continua a scaldarci.
Eppure quella canzone continua a risuonarmi in mente…
“Il sesso virtuale è più salubre, in quanto che c’è
Un virus che si prende tramite il sudore
E in 90 ore si muore
L’HIV al confronto sembra un raffreddore
È un esperimento bellico sfuggito
E il risultato è che nessuno fa l’amore”.
IL CORONAVIRUS E NOI. FRA SUD E NORD… : leggi il diario
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