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Nel limbo, fra Sardegna e Parma

Giorgia Tocco

04/03/2020. Lo dice la schermata del mio pc, l’orizzonte che per la maggior parte del tempo si staglia di fronte ai mei occhi. Oggi è il 4 marzo, ma non so quando sia cominciato. I giorni sono tutti uguali, la routine si annulla in quei tre movimenti che scandiscono meccanicamente le mie giornate: alzarmi dal letto, vivere alla giornata, riaddormentarmi. Solo quando al mattino distolgo lo sguardo mi accorgo che è già sera; mi perdo in numerose ricerche della qualunque, in sessioni di studio a metà, in puntate di serie tv che ormai vanno avanti ad inerzia, quasi in cerca di un senso che, forse, si compierebbe solo al loro termine.

Sembra ieri quando, trovandomi già in Sardegna per una laurea, apprendevo nel salotto della mia amica di essere scampata per pochi giorni al delirio sociale e mediatico che si è creato in quello stesso fine settimana di febbraio, mentre ancora incredula ascoltavo i messaggi vocali e rispondevo alla telefonata delle mie sfortunate coinquiline incastrate nel fronte parmigiano. Questa è una guerra, e fin’ora è stata devastante. E’ una guerra all’ultima mascherina tra gli ipocondriaci, è una lotta per l’ultima scorta di cibo tra gli indemoniati che fanno le file al supermercato, è uno scontro all’ultimo insulto tra chi nell’ipocrisia cerca di trovare un colpevole, sempre se ne esista veramente uno

Ma più di tutto, è una guerra all’ultima informazione, quella fatta nel modo più rapido ma anche più subdolo, omettendo ciò che veramente conta per creare scompiglio, confusione, panico e allarmismo in cambio di visibilità o visualizzazioni su internet.

Non mi trovo nella zona rossa, ma sono isolata anche io. Qui nel mio paesino di nemmeno 600 abitanti, il pandemonio non è ancora all’ordine del giorno e la gente vive tranquillamente secondo i propri ritmi, ma qui per me non c’è più niente. Mi trovo confinata in un limbo, un gigantesco punto interrogativo che si riduce a due opzioni: restare o ripartire?

Entrambe le soluzioni non portano a delle scelte ottimiste. Tornare significa rischiare un potenziale contagio, l’isolamento vero e proprio, fare i conti con ciò che si deve e ciò che si vorrebbe fare; rimanere equivale a perdere contatto con le proprie abitudini, mettere in stand-by la vita universitaria e la routine da ‘fuorisede’ per quella tradizionale in cui riuscire a vedersi con i vecchi amici è sufficiente a non impazzire. <<Alla fine è come quando torni per le vacanze estive>>, mi dicono. Spesso cerco di convincermi che hanno ragione, negando quel confine sottile tra una vacanza, un tempo determinato di cui si assapora ogni momento, e l’arresto forzato di ogni attività propria di questi giorni, in cui la mia casa è una gabbia dorata dove poter fingere che tutto vada bene e di aver fatto la scelta migliore, cosciente del fatto che ora non conta più ciò che giusto o sbagliato, ma solamente le attese.

Sta a noi decidere quanto farle durare.

IL CORONAVIRUS E NOI. FRA SUD E NORD… : leggi il diario

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