
Teresa
Un cuore che smette di battere, un corpo morto che sbatte sul suolo.
Un’ambulanza che sfida le logiche del tempo e che, con rassegnazione, si immobilizza di fronte all’impotenza del non poter fare più nulla.
Ieri sera, un mio ex compagno di liceo è morto.
A riferirmelo le tante persone che sono imprigionate in cui piccolo paese del sud d’Italia con soli quattro posti letto in terapia intensiva, nel raggio di quasi sessanta chilometri. Un paese composto da poco più di sei mila anime, strette nel silenzio e nella solitudine dell’incertezza più totale; severamente guidati dall’imperativo della quarantena, uniti nello scongiurare che il peggio si realizzi. Un paese mutilato che ha visto partire i suoi figli, e che ora, insulta e condanna quei pochi che sono tornati.
Mi tornano in mente i momenti atroci vissuti, dopo aver appreso che il cuore di mia nonna aveva smesso di battere. Dopo le prime ore trascorse nella forte necessità di elaborare, intimamente, il lutto da sola, a darmi conforto sono state le persone a me più care. Amici e conoscenti che, in quei momenti, hanno toccato con mano l’impossibilità di cercare parole utili per rassicurare una sofferenza causata dalla scomparsa di una persona che smette di essere presente, di vivere.
Dove trovare le parole? In quale repertorio cercarle?
Quante volte, dopo la notizia di una morte, abbiamo pensato: “Quanto mi dispiace! Ma è inutile scrivere un messaggio. Cosa scrivere in questi momenti?! Tanto dopo vado a casa sua. L’abbraccio a cui mi abbandonerò vorrei fosse totalizzante, sentito. Attraverso il contatto proverò a trasmettere tutta la mia empatia e la mia vicinanza. Sarò presente, concreta e visibile di fronte ai suoi occhi. Sarò lì, bacerò le sue lacrime, mi renderò disponibile per alleviare almeno in parte il suo dolore”.
E ora immagino sua mamma, sola nella cameretta che ha sistemato chissà quante volte pensando: “ah, questo figlio, com’è disordinato! Tutto io devo fare in questa casa”. Immagino questa mamma piegata dal dolore, guardare ancora più in basso, nell’abisso dell’irreparabile, pregare forte, sentitamente, con il desiderio irrealizzabile -e spezzato dalla bruttezza della realtà- che un giorno possa dire ancora, dopo aver atteso il ritorno di suo figlio: “come sei disordinato, oggi non esci prima di aver sistemato tutto”.
Immagino i suoi familiari, distanti fra di loro all’interno di in una piccola chiesa, accarezzati solo dal suono impotente delle preghiere del parroco. Soli in una chiesa in cui si sentirà troppo forte il rimbombo causato dall’assenza di tutte quelle persone che invece vorrebbero dimostrare vicinanza ai familiari, abbracciarli e consolarli.
La vita è feroce, crudele, imprevedibile; la palpabilità di questa evidenza, in questi giorni, ci sta divorando.
E non trovo, nella vastità dei pensieri che corrono all’impazzata nel mio cervello, una sola e ferma riflessione che riesca a frenare il pessimismo di questo momento così doloroso.
Sono lontana centinaia di chilometri da te, mio caro ex compagno di classe; sono lontana centinaia di chilometri da te, mamma chiusa in un dolore inimmaginabile. Sono lontana da tutti voi, miei cari compaesani che, distanti, ci schiaffeggiate con parole feroci o ci accarezzate con premurose raccomandazioni affidate ad un telefono.
Sono così terribilmente lontana, eppure sono lì.
Questo voglio dirvi mentre un’ossimorica giornata di sole comanda il mondo su di me: dimostriamo l’amore che proviamo affinché nessuno possa sentirsi solo o abbandonato. Siamo tutti fratelli e sorelle, fragili nella nostra solitudine, e tutti bisognosi di amore. Non dimentichiamolo.
E così, trafitta da un raggio di sole, mi accorgo che è subito sera.
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